« Indietro

Regina: “Soita Mulle” – VIDEO


Non è per niente facile scrivere dei Regina e di “Soita Mulle” (Johanna Kustannus, 2011) nonostante, dopo innumerevoli ascolti, sia assolutamente certo di averne assorbito sonorità, atmosfere ed armonie.
La prima ragione per cui mi riesce complicato è di natura personale. Sono infatti il primo a riconoscere che non è opportuno dedicare la prima recensione discografica della propria vita ad una vera e propria ossessione. “Soita Mulle” è diventato la colonna sonora di un’altalena emozionale sulla quale non salivo da molti anni.
La seconda ragione è di tipo linguistico. Rendere un disco cantato in finlandese dall’inizio alla fine inno ufficiale di un ritorno alla vita è stata una operazione quanto meno inattesa, oltre che caratterizzata da dinamiche peculiari: il connubio tra la pulizia della voce della splendida Iisa e l’apparente dolcezza delle liriche, oltre che la forzata inaccessibilità dei significati e l’ “esotismo” di questa strana lingua, mi hanno condotto ad una primordiale forma di empirismo sonoro, alla ricerca di Dio nella pura melodia.
La terza ragione potrebbe apparire difficilmente comprensibile. Rudimenti di lingua finlandese mi insegnano che “Soita Mulle” significa “Chiamami”, o forse “Chiama ME”, “Chiama PROPRIO me”, un imperativo comunque, un ordine che la mia fantasia non può fare a meno di privare di ogni connotato autoritario o intimidatorio, riuscendo magicamente a permettermi di immaginarlo pronunciato da una ragazza dai capelli biondo cenere, con un sorriso tenero e pieno di speranza, privo di malizia. Questa personalissima interpretazione del titolo del disco mi ha aiutato a superare lo sciocco pregiudizio connesso all’apparente distacco emotivo di un certo ambiente umano subartico. La frase “Soita Mulle” rappresenta oggi per me l’antitesi del rigore e della disciplina scandinava. Uno sfacciato inno alla condivisione lungo appena 35 minuti, l’accantonamento definitivo della riservatezza ed allo stesso tempo il trionfo della leggerezza, dell’imprudenza. Mi piace anzi credere che questo zuccheroso imperativo possa rappresentare il primo ideale ponte tra due ceppi linguistici solo apparentemente divisi, come il nostro e quello ugro-finnico.
“Chiamami”, dunque.
Ho risposto decine e decine di volte alla chiamata dei Regina, agli inviti subliminali di Iisa, Mikko Pykäri e Mikko Rissanen. E ogni volta, al momento del riaggancio della cornetta, montava uno strano e sempre diverso stravolgimento emotivo. Perché una delle caratteristiche del disco è rappresentata dai continui contrasti tra la limpidezza della voce di Iisa, tra la pulizia della sua anima, l’equilibrio delle melodie e le distorsioni della kitara di Mikko P. Una perenne alternanza di ritmi, di scherzi, di generi, di canti liberatori da giornate di fine scuola, da gita alle isole Åland, da ascoltare ad altissimo volume lungo la strada tra Turku e la magica Naantali, in giugno, la mattina, aamulla. Basi synth pop ed orecchiabili riff in un circuito stilistico a dir poco raffinato.
Il primo esempio di questo pregevole equilibrio (dicevamo, la costante alternanza tra candore e ruvidezza) è sicuramente “Unessa”, la traccia che apre il disco (Mä vein sulta muiston, Mä vein sun sanasi, Tein niistä mun oman, Tein niistä mun uneni, “Ho preso il ricordo da te, ho preso le tue parole, Le ho fatte mie, ne ho fatto il mio sogno”), vero e proprio manifesto dello shoegaze ugrofinnico che in alcuni passaggi mi fa tornare in mente i Texas, gli Swing Out Sister, i primi Cardigans.
“Haluan sinut” si apre con un nevrotico riff di fiati elettronici per sbocciare delicatamente nel giro di pochi secondi grazie a quell’angelo di Iisa che, non senza un certo ardore, sussurra il suo desiderio primaverile di innamorarsi. Ancora. Forse su un battello bianco per Kolko.
Pochi minuti dopo ho immediatamente l’impressione che tutte le emozioni in procinto di essere rilasciate con trasporto nell’aria fresca del mattino di Tammisaari appena qualche minuto prima siano già rimpianto: ci si è lasciati trasportare troppo da questa profumatissima estate finlandese ed è già tempo di chiarimenti, di confronti. Si sta seduti in una macchina parcheggiata proprio davanti al mare a fissare un punto fisso all’orizzonte con le lacrime agli occhi mentre si ascolta “Lepään aalloilla”, “Mi riposo sulle onde”. Oggi finisce così mentre il sole non riesce a tramontare mai del tutto, e i forti bagliori di una luce molto bassa che si riflette sulla sabbia bianca di Yyteri mi fanno lacrimare gli occhi ancora di più.
Sulla stessa linea, ma pervasa di una maggior leggerezza “Jos et sä soita” (“Se tu non chiami”), che si connette con decisione al titolo del disco, e che a mio avviso rappresenta il manifesto della poetica dei Regina (“Haalistuu haalistuu | Sanat ja muu | kaikki haalistuu”), incarnando perfettamente l’equilibrio tra spensieratezza post-adolescenziale scandinava (immagino istantaneamente una serata gelida trascorsa in balia dell’agitazione sotto le coperte nell’attesa, o nel sogno, di una telefonata romantica) e la profondità di una costruzione sonora ben calibrata, in cui la robustezza della grancassa di Mikko R. recita un ruolo cruciale.
Per diverse ragioni incontro enormi difficoltà a raccontare di “Mustavalkeaa”, ormai eletta manifesto della mia seconda estate finlandese non ancora iniziata, la canzone degli attimi. 2 minuti e mezzo che rappresentano il tempo massimo in cui il cuore riesce a reggere lo sforzo richiesto dalla necessità di trattenere tutto ciò che di bello l’estate finlandese riesce ad offrire. Il tempo che si impiega ad ambientarsi ai 15 gradi delle acque di un lago nell’area di Kuopio e a distendersi in qualche bracciata convinta. Se sarò felice quest’estate in Finlandia, veramente felice, lo sarò per appena due minuti e mezzo. Il tempo che il lettore cd impiega a decodificare gli impercettibili solchi necessari alla registrazione di Mustavalkeaa sulla sua superficie. Non solo perché l’estate finlandese è particolarmente breve, ma perché nella sua brevità riesce a sprigionare vibrazioni, profumi e sentimenti rimasti seppelliti per un anno intero, in grado di soffocare se non allontanati e messi rapidamente alla porta nel momento in cui riemergono dal suolo. E’ un brano di una perfezione-pop quasi eccessiva, nella cui interpretazione è senz’altro anche il video a giocare un ruolo fondamentale. Una gita alle Åland, semplice, ordinaria. Una ragazza col sorriso pulito che scende dal letto e riempie uno zaino in pochi istanti, abbandona di fretta il proprio appartamento per addentrarsi con timidezza nella luminosa giornata del sud, tra betulle e battelli, laghi increspati e tuffi dal molo. Nella pressante necessità di sorridere. Forse è stata la condensazione di tanta felicità in un brano di appena due minuti e mezzo a convincermi che in Finlandia l’amore non possa durare più a lungo di così, che poi si resta comunque insieme ma ci si è amati davvero solo il tempo necessario per passare dal rosso fuoco dell’alba di Sottunga al porpora intenso del tramonto di Kvarnholm.
“Ui mun luo” è quasi una intermission, necessaria per addentrarsi nell’ultima parte del disco senza sentirsi eccessivamente indeboliti dalla feroce alternanza di suggestioni. E’ una stravagante ballata che potrebbe essere stata tranquillamente composta dagli Ace of Base dopo un corso intensivo di finlandese.
Si arriva così a “Harjun takaa” e a “Valveilla”, un coraggioso e robusto grido di sfida la prima, una elegantissima ballad la seconda, che sembra essere quasi il dono ai Regina del primo Kurt Vile (quello di The War On Drugs). La chitarra di Mikko è sottilissima, tagliente, stavolta non distorta. Il fruscio di questa scimitarra mi catapulta sotto il cielo stellato di una delle innumerevoli Toscane della mia infanzia, in estate, col fresco, in cui niente di male può accadermi.
Soita Mulle è un disco velocissimo, intriso di colori, in totale contrasto con la bicromia della sua copertina. Mi piace pensare che sia un tributo al risveglio della natura, alla rapidità con cui i colori in terra di Finlandia si manifestano in tutta la loro brillantezza in giugno e poi muoiono all’inizio di settembre. Non avrebbe mai potuto essere un disco lento, riflessivo. Soita Mulle è un lampo nel cielo di Oulu in pieno luglio. Lo ascolto più volte al giorno e ogni volta ho la sensazione che Iisa non sia altri che Ilma, l’antica divinità pagana personificazione dell’aria che ha ricevuto da qualcuno il compito di spingere le sue labbra contro le mie per riempirmi i polmoni di misteriosi e sconosciuti vapori benefici.
In poco più di mezz’ora grazie a Soita Mulle ho capito che ogni tanto bisogna sorridere di fronte alla natura e rallegrarsi quando ve ne si è immersi.
Questo disco è costellato di orme che seguirò nel mio percorso alla inutile ricerca dell’equilibrio, dell’eleganza sonora, dell’album perfetto. Quello che più mi rallegra, però, è che tra qualche anno vi ritroverò certamente tutti i profumi dell’estate del 2016 in Finlandia, dei sabati mattina in motorino con Fede, del mio ritorno alla vita.
Alessandro Lusi