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Tove Jansson e il blocco dello scrittore


di Alice Flinta

È li in bianco e nero, che guarda appena sopra la mia testa, come se avessi qualcuno dietro a scattarle una foto. Un sopracciglio leggermente alzato, gli occhi chiari a metà tra lo stupore e la domanda. Accenna ad un mezzo sorriso, che è piuttosto una forzatura della bocca sul lato sinistro. Stringe, tra le dita affusolate e le unghie regolari, quel che sembra un esemplare di Mumintrollet in peluche. Si intravede una camicia dal colletto arrotondato, che per qualche recondito motivo, per me può essere solamente un distintivo segno finlandese.

Ha quello sguardo a mezz’aria tra lo stupore, la tenerezza e l’inaspettato. La mia immaginazione prende il via: la vedo tornare bambina, giocare con i Mumin, con la sua stessa fantasia fatta peluche, e di colpo interrotta da un genitore entusiasta al quale non è più permesso l’accesso al vortice illusionistico di animali ibridi che le chiede se vuole fare una passeggiata al parco. Colgo quello sguardo, quel punto interrogativo in bilico tra il proprio divertimento individuale e il dovere di figlia, che a volte deve accompagnare i genitori al parco, così magari fantasticano un po’ anche loro.
La vedo così Tove: tornare bambina davanti ad una macchinetta fotografica.

Un qualche richiamo infantile, o genetico finlandese fanno pressione su di me, e mi inducono ad esplorare l’articolo apparso su The Paris Review. “On Writer’s Block”. Il blocco dello scrittore. Un’espressione che ormai per me indica una patologia psico-fisica: l’ipocondria inizia a farsi spazio in me… E se ne fossi affetta anche io? Se iniziasse a svilupparsi e non me ne accorgessi? Se non mostrasse sintomi e lo continuassi ad alimentare dentro di me? Se si alimentasse di me, a mia insaputa? “Ah no” mi convinco, “certe cose vanno affrontate subito… o raggirate”. Così lo raggiro, e mi imbarco nella prima traduzione letteraria a scopo di pubblicazione della mia vita.
Il farmaco “traduzione” va preso a ingenti dosi, quando necessario. Il fantomatico “blocco dello scrittore” scomparirà di conseguenza.

Una volta, in un parco di Tove Jansson

Sto comodamente seduta su una panchina in un parchetto dietro Saint-Sulpice, e suppongo che dovrei trovare un qualcosa di cui scrivere. Qui è molto tranquillo. I piccioni si accoppiano su un fazzoletto di erba; alcuni turisti riprendono fiato sulle panchine di fronte a me; un organo suona alle mie spalle, lontano.

Un mendicante passa ogni tanto e disturba i turisti – spiega, dettagliatamente, che capisce anche l’italiano. Io rimango in silenzio e alla fine lui se ne va.

Non capisco perché debba essere così difficile: uno dovrebbe essere capace di scrivere su di una qualsiasi cosa in un qualsiasi momento, in maniera estremamente professionale.

(Mi chiedo come sia per le altre persone.)

Per il momento ho solo scritto la data sulla prima pagina del mio quaderno, ma quello era ieri.

D’accordo ci provo, ma più ci provo, peggio diventa, sempre più insormontabile ed inimmaginabile che io riesca a farmi venire qualcosa in mente.

Uno potrebbe anche solo lasciar perdere.

Ma non sono arrivata a quel punto, non ancora.

A volte ho pensato che uno potrebbe iniziare dalla cosa più semplice, qualcosa tanto rassicurante quanto la pioggia sul tetto di un cottage – un ragazzo esce a fare pipì nella notte calda, e ad un certo punto uno tira fuori l’oceano.

Non capisco perché io debba trascinare l’oceano in tutto quel che scrivo. E poi è così fottutamente difficile andare avanti con qualcosa che era così meravigliosamente semplice e dovrei saperlo bene, questo.

Se ci si pensa in maniera completamente obbiettiva, uno ha bisogno di solo due o tre parole (beh, forse quattro, cinque) per cominciare e gettarsi a capofitto, lasciar andare e poi arrivare al porto sicuro delle sessanta pagine.

Ora hanno di nuovo iniziato con l’organo; il mendicante è tornato. Un sagrestano esce fuori di corsa e cerca di mandarlo via.

Ma qualcosa sull’amore? Assolutamente no. Tutte le grandi storie d’amore sono già state usate e le minori non hanno alcuna utilità letteraria.

Cosa ho detto a quei bambini che scrivevano e chiedevano come uno diventasse scrittore? Era qualcosa del tipo scrivi su ciò che hai vissuto, su ciò che conosci…

Ma io l’ho fatto. Ho spremuto fino all’osso la mia mezza età, e anche quando sono diventata veramente vecchia ho fatto tutto quel che ho potuto, ma poi ho provato a scrivere su persone veramente giovani, e non ha funzionato molto bene. E i bambini scrissero ancora, e chiesero E adesso che facciamo, ed io ho detto Scrivete sulle vostre paure, e loro l’hanno fatto, immediatamente, e hanno voluto un commento il più presto possibile.

Ed io cos’è che temo più di tutto? Di essere una perdente cronica, di essere la seconda scelta. Ma questo non è qualcosa su cui uno scrive.

Ci si potrebbe immaginare una storia terribile sul costante obbligo di scegliere. Me ne esco con un certo qualcuno e gli faccio realizzare, una mattina soleggiata, tutto d’un tratto, che è obbligato a prendere costantemente delle decisioni, ininterrottamente ed inesorabilmente, in ogni memento della sua vita. Non può mai essere sicuro di aver fatto le scelte giuste.

E non è solo una questione di quel che ha fatto o detto. Deve diffidare di ogni tono, gesto o sguardo che potrebbe stravolgere il corso degli eventi tramite un cambiamento impercettibile ma definitivo, che potrebbe svilupparsi, a pieno ritmo, in una qualsiasi direzione possibile.

Si spaventa tanto. Cerca di chiudersi in sé stesso, di non dare nell’occhio, di diventare un nessuno che non faccia alcuna differenza, in nessun modo, e naturalmente, capisce che questa è la cosa più obbiettabile che gli sarebbe mai potuta venire in mente.

Questa era una storia inutile, ma ne conosco un’altra che è ancora peggio: che ne dite di un pittore che si sveglia in un’altra mattina soleggiata e se ne sta lì a fissare la tavolozza e non ha la più pallida idea di che colore scegliere – stanno tutti lì, con i loro bei nomi, che sia viola cadmio o verde Veronese o terra d’ombra e il nero avorio sul bordo della tavolozza… e il pittore non sa più cosa deve fare quando dipinge o che cosa, di tutto ciò, abbia a che fare con lui – e che ne dite di un autore che in una mattina soleggiata se ne sta lì, a fissare l’alfabeto?!

A questo punto mi ero stancata molto.

Presi il mio bastone da passeggio e andai verso il secchio della spazzatura e gettai il quaderno, un gesto totalmente innecessario, non adatto alla mia età.

Quando tornai, il mendicante stava seduto sulla mia panchina – sembrava stanco. Immediatamente riprese la sua vecchia parlantina dicendo che capiva anche l’italiano, e io mi arrabbiai molto e gli risposi in un finlandese veramente ostile che lo fece tacere per un po’.

Alla fine iniziò a parlare, praticamente con se stesso, di quei tipi senza speranza con le loro parole senza speranza, Non sai nulla, disse, non ne sai un cazzo di quello che mi è successo e di quello che ho fatto succedere io… Ti potrei riportare alla vita. Ti potrei scuotere fino a svegliarti, ma tu non ascolteresti… Sei noiosa!

Se ne andò correndo per il prato e lo stormo di piccioni prese il volo sbattendo le ali e lui gli urlò addosso: Stupide creature, dannati cretini, mi dispiace veramente tanto, ma io non posso aiutarvi… voi poveri diavoli che avete perso tutto…

Da li a poco, lasciò il parco.


Traduzione in italiano di Alice Flinta

Tove Jansson, “On Writer’s Block” in The Paris Review, Feb 14, 2019. Traduzione inglese di Hernan Diaz.