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Amorfiana della scritrice finlandese Mariaana Jäntti: una nota di Viola Parente-Čapková



"Amorfiana è un testo che offre innumerevoli interpretazioni e paralleli. Nel contesto della letteratura finlandese è qualcosa di unico non soltanto come un gesto d'avanguardia; la combinazione, da una parte, della magia delle parole e del linguaggio come testimonianza definitiva e, dall'altra, del distacco, dell'iperbole, di un raffinato senso dell'umorismo e dell'autoironia, è qualcosa senza precedenti nella prosa finlandese. Amorfiana è un testo che, di certo, ha voce anche nel contesto europeo".





Gli esperimenti amorfi della ciarliera Icariana

di Viola Parente-Čapková



Anche se poco nota, Mariaana Jäntti (Mariaana Fieandt-Jäntti, n. 1953) è una delle rappresentanti, e forse la più interessante, di alcune tendenze della prosa finlandese di fine anni 1980. Grande attenzione suscitò il suo primo e tuttora unico romanzo Amorfiana (Amorfiaana, 1986), che possiamo considerare come un altro tentativo nell’ambito della letteratura finlandese di fare i conti con un certo tipo di narrativa moderna, che rispecchia la realtà attraverso simboli e metafore; piuttosto che ad un’opera postmoderna ci troviamo qui di fronte ad una reazione a vari approcci del metodo modernista che, durante il suo periodo di massimo splendore nella letteratura europea occidentale, non causò in Finlandia una vasta eco. Diversamente dalla maggior parte delle sue coetanee (scrittrici) finlandesi, le cui risposte sono basate essenzialmente sulle tradizionali tecniche narrative (Anna-Leena Härkönen oppure Pirjo Hassinen), Mariaana Jäntti si rifà piuttosto alla prosa sperimentale, addirittura alla ricerca di un linguaggio nuovo, alternativo, al di là della sfera razionale e con un forte accento sulla materialità della lingua. Non sorprende, quindi, che la filosofia francese sia stata una fonte d’ispirazione importante per la Jäntti; quest’interesse l’ha portata nel 2010 a co-tradurre Chaosmose di Félix Guattari.



Il titolo del libro implica uno stato amorfo, informe; questa assenza di forma, però, è modellata dal testo stesso, che si offre a diverse chiavi di lettura. Amorfiana tenta di esprimere l’inesprimibile, l’autrice stessa paragona il testo ad un ingrandimento fotografico, l'accento è posto sull'integrazione dell’espressione verbale e di quella visiva. Per strada c’è una ragazzina dai capelli lunghi su un triciclo, verso il quale si avvicina pericolosamente un camion: il romanzo è quell’istante di pericolo, un attimo che si estende all'infinito, e durante il quale si svolge la trama dell’intero racconto. Si tratta, quindi, di una sonda nella psiche umana, di una costruzione immaginata, di una casa, dalla cui finestra si può scorgere la strada con la ragazzina. Il destinatario del racconto, ovvero il lettore, è la pietra gettata attraverso il vetro di quella finestra. Nel corridoio, sulle scale, nel seminterrato, in cucina e nella stanza si svolgono e si mescolano i processi del conscio e dell’inconscio (uno di questi processi è persino giudiziario), per lo più riflessi di miti, archetipi e simboli. Tutto zampilla e scorre, i singoli flussi si intrecciano e si versano in un tutto amorfo.



Ciascuno degli eroi di questo particolare racconto ha un proprio mito, e il simbolismo di ogni personaggio può essere interpretato in vari modi (per tutti, possiamo qui citare lo strillone Friksos e la sua assurda ricerca della spada mistica). Anche se numericamente prevalgono i personaggi maschili (Paul o L'uomo nero, Kött, Mr. Sternpoff, l’avvocato Trendén, Friksos, Il gigante strangolatore e il piccolo conte), il punto di vista centrale rimane l'esperienza femminile. I confini tra i personaggi (soprattutto donne) rimangono, invece, volutamente celati; la figura principale, per quel che riguarda la prospettiva “narrativa”, è Madame, nella cui voce narrante confluiscono quella della donna della cantina e della ragazzina - Alfhild, la quale potrebbe essere identificata come la donna della cantina, ma “questa è ancora più giovane, una ragazza, in effetti.” Il simbolismo sessuale e freudiano è uno dei temi centrali del romanzo, così come il tema della violenza, individuale o organizzata (un gruppo di prigionieri oppresso dalla guardia carceraria Makonen). La ricerca della luce e l’ascesa nella sua direzione sono altri motivi ricorrenti, ed insieme a numerose metafore bibliche e citazioni (“questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”) offrono un interessante confronto intertestuale. Il volo verso la luce è anche un richiamo alla storia di Dedalo e Icaro, in questo caso Icariana, come nel testo è più volte dichiarato esplicitamente. Della stessa sorta è anche la riflessione sull'origine dell'andatura bipede dell'uomo - in posizione eretta.



Amorfiana è un testo che offre innumerevoli interpretazioni e paralleli. Nel contesto della letteratura finlandese è qualcosa di unico non soltanto come un gesto d'avanguardia; la combinazione, da una parte, della magia delle parole e del linguaggio come testimonianza definitiva e, dall'altra, del distacco, dell'iperbole, di un raffinato senso dell'umorismo e dell'autoironia, è qualcosa senza precedenti nella prosa finlandese. Amorfiana è un testo che, di certo, ha voce anche nel contesto europeo.




                                           
Amorfiana
traduzione di Antonio Parente



Perché ti racconto questa storia? Perché non esiste. Perché deve ancora accadere; un po’ come quando dalla finestra, alta e distante, vedi in strada i capelli lunghi di una bambina sul triciclo e tu da lassù già percepisci nelle gambe le vibrazioni e il rimbombo del camion e sai cosa succederà, lo senti negli occhi e poi te lo ritrovi di fronte; non c’è nulla da fare, e nemmeno se ti precipitassi in volo attraversando i vetri di quella finestra arriveresti in tempo. Tutto accade a gran velocità, ciò che accade, intendo. Ti racconterò una storia, in modo che possa accadere. Potrai scorgere il mio viso schiacciato contro il vetro, guarderai in alto, verso quella finestra, e ti apparirò solo come un lampo effimero, un’illusione luminosa, il riflesso di un viso che balena sul balcone dirimpetto. Nessuno mi conosce, perciò devo raccontare, spifferare. Tutti mi incalzano. Perciò devo dissolvermi, raccontare. Sono quindi davvero soltanto un miraggio sul vetro della finestra, un difetto (in una massa altrimenti uniforme) nel quale si riflette importuno qualsivoglia minuscolo gioco di colori, parte del volto nel quale si apre un’incavatura, un dito storto con un’articolazione innaturalmente enorme, ma altrimenti sono lì, come un preparato schiacciato contro il vetro, a lui congiunto. Già ora temo che questo racconto rimarrà incompleto. Se la bambina finirà sotto quelle ruote, il vetro là in alto si frantumerà, le schegge cadranno sul lastricato abbuiato e nessuno le noterà. Le bolle di vetro ormai incrinate, il preparato fuoriesce.



Cucina, corridoio e cantina



Con un mestolo di legno rigira, mescola il bucato candido nel bugliuolo di ferro. Allunga il collo sul vapore cocente. Su un’asta temporanea innalza un caldo abito di lino per farlo sgocciolare. Protende il lungo manico del mestolo tra il vapore verso la secchia, assaggia l’acqua bollente del lavaggio, ed essendo di gran sapore ne versa un po’ nella brocca, sulle foglioline di tè. Tra la caligine osserva la fogliolina della pianta di tè, fremente al vento, rigonfiarsi nel calderone bollente. Con gli occhi iniettati di sangue per lo sforzo dice — Non sento nulla. Va in collera. Affonda il coltello nella patata — Questo è il mio corpo, — la dismembra. Versa l’olio nella padella, riscaldandolo oltre la temperatura consigliata — Questo è il mio sangue. — Ma non ne prova la sensazione. Ratto, sibila all’indirizzo del moscone, appostato nel vapore untuoso della patata. Lecca la paletta impepata. Ora è sazia. La agita con approssimazione in direzione del moscone, pur non volendo colpire quel grumo carnoso. Stranamente, in un inverno più buio, apparve in sua prossimità... l’impollinatrice dei fiori di ghiaccio! Lei stessa è assisa nel bicchiere, nella torre, nel barile, nel collo della bottiglia, nella vasca da bagno, nella tromba delle scale, nel frigo vuoto, su una montagna di spazzatura, in ascensore, al piano interrato, nella stufa di ogni tempo. È un essere umano, bruciato fino in fondo, alcuni pensano, almeno quando quasi quasi prende di bruciaticcio. Batte un ritmo con le dita. — Com’era? — gli sovviene e prova TDATIDATIDTIDATITA — no, non fa così, che nervi. — La governante a sangue caldo tambureggiava come gli scout, almeno così sosteneva, le calze contenitive alle gambe, un boccone freddo di salsiccia davanti a lei (sufficientemente buono per le persone di servizio), picchiettando lanciava la sua capacità visiva dai vetri della finestrella incorniciata di brina, oltre la stalla abbandonata, oltre il pozzo congelato, oltre la signoresca casa in legno, oltre la casa di pietra a più piani, dove faceva i lavori sporchi, affezionandovisi fino al midollo, oltre diverse soglie, dove troneggiava con le sue vene varicose, diverse soglie infantili, la penombra degli anni, fino al comò e alla foto di nozze ancora luccicante che vi si stagliava, e che non è mai stata vera. “Così tamburellano gli scout” ripeteva e sosteneva costantemente. Che nervi. Dove può essere finito quell'uomo scomparso dall’immagine sul comò? Certamente un agente, così come la donna. Chi siede nella torre lascia che il destriero delle sue dita galoppi senza ostacoli verso altre torri, su fogli di raccomandazione restituiti e destituiti, in cui si offriva sostegno per richieste di denaro p. var. scopi che la persona in questione avrebbe presumibilmente soddisfatto, verso un laminato, in direzione della rigatteria il destriero delle sue dita — TDATITITDATITI — verso il traffico intenso, che lo sguardo imprigiona sulla base di un presentimento infausto, verso un campo incolto — TDAT — una nevicata — TTTI ... — vorrei fare l’amore. Assapora quella sensazione, sotto la sua influenza si carezza la testa, inarca il suo collo di cigno, lascia che la fragranza del sudore trapeli dalle pozzette pelose, versa il tè, infuso e caldo; è trascorso del tempo, allora? Si alza e incede lungo l’alto corridoio che va scurendosi, diretta alla stanza dove si accoppierebbe agli altri. Aiutandosi alternativamente con la mano destra e la sinistra ballonzola il suo corpo da una parete all’altra, i piedi quasi immobili. Avanti, verso la stanza dove accopperebbe gli altri! L'intonaco va sgretolandosi e la parete s’incolla alle scarpe. Già si sentono quasi delle voci liete. Ma le viene sete o qualcosa del genere. Si gira, ritorna con la solita andatura verso la teiera. Beve. Inconscia attraversa il corridoio, senza esitare. Sbatte la porta dell'androne e si precipita giù per la ringhiera passando vicino a decine di ingressi, fino ad arrivare alla porta della cantina. Vi entra, magari riuscirà a mettere ordine nel suo ripostiglio.



Nella stanza accanto al corridoio ora tutto tace. Madame si alza, spazzolandosi ed abbigliandosi con movimenti femminili, si volta verso la finestra mentre l’avvocato, con movenze coordinate e frettolose delle sue membra, riesce a sopravanzarsi per aprire la finestra. Sul campo ghiacciato il mare soffia vento, l’acqua infuria sotto il ghiaccio, nemmeno d’inverno riposa, infuria, solleva la sua lorica nevosa per poi ricadere. La neve sferza chi cammina sul campo con la pelliccia drizzata a passi farinosi. Avanza, va incontro alle sferzate nevose che coprono subito le sue orme e lo costringono a piegarsi all'indietro, contro la propria volontà. Sotto la neve si scorgono dei baffi vaporosi. Un uomo. Se fosse stata una donna, li avrebbe rasati, i baffi. Le cicatrici del vaiolo. Se fosse stata una donna, le avrebbe rasate, le cicatrici. Nell’enorme muffola, al pollice non manca la palma, eppure la cerca. Incontro alla morte, alla crepa nel ghiaccio! mugghia in lui la voce butterata. La forza ci sarebbe. La pelliccia pure, per ora.



Il mare si dibatte nella sua lorica. “Non riesco a sopportare questo imperversare continuo,” dichiara la mano di Madame agitandosi nell'aria. — Dovete cerare di fuggir via da qui, — geme l’avvocato. Madame abbaia a quella furia, guaiti afoni: il frangimuro polverizza la casa di fronte. La polvere si alza sempre fino all’ottavo piano, tanto da incipriare con simmetrica grazia la mano di Madame, che improvvisamente si arresta... La mano caduta dell'Afrodite di Melos. Nell'oscurità, l'elegante fremito della replica della statua sullo scaffale per i dischi al centro della fotografia. Madame ansima. L’avvocato accalcato dietro di lei. Nella stanza la vista è limitata. Tuttavia, dall'altro lato della porta, contro cui il principio alsaziano continua a scagliarsi, la vernice sugli artigli, attira l'attenzione su di sé grazie alla sua capacità di girare la maniglia. Le doppie porte, poco usate, si aprono sul buio. Tutti sanno che tra le mascelle del cane si nascondono ignudi dei denti aguzzi, tradizionalmente il cane è infatti un po' caratteriale. Dalla sala inutilizzata, aperta con i denti e con le unghie, si sente — Madame, oh!, dovevo venire a dirle che bisogna coprire la mobilia con teli di plastica, visto quaanto s’impoolvera — è l'equivoca sig. Parkstein, donna di servizio, sotto il tavolo da pranzo in rovere, sui quattro arti a quattro occhi con il cane alsaziano. La donna di servizio si protegge con la frangia che pende greve dalla tovaglia, come tanti minuti scudi fatti a mano. Il cane crollò assumendo la posizione a terra e rimase a contemplare. Chissà se l’aiutante era di nuovo lì ad origliare o forse aveva solo dei passatempi strani, cosa del tutto inopportuna. — Sei un lupo — tuona Madame, chiude la finestra, le doppie porte e gli occhi.





Mariaana Jäntti intervistata da Philip Landon (in inglese)